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Spiritualità: Mio Signore e mio Dio

di Don Ferdinando Colombo

La forza dirompente con cui la Risurrezione di Cristo travolge le nostre incertezze di fede rischia di essere svuotata del suo significato più importante quando la catechesi sottolinea solo la divinità di Cristo trascurando la sua umanità. È esattamente il corpo umano di Cristo che è risorto ed è la caparra della nostra risurrezione nel corpo. Come avrebbero fatto gli Apostoli ad esprimere l’atto di fede in Cristo Risorto, che appartiene ad una realtà totalmente diversa da quella terrena, come avrebbero potuto incontrare Cristo Risorto che è Dio ed è Spirito se non si fosse presentato con il suo vero corpo, che ci permette di farne esperienza?

 

Un esempio meraviglioso, offerto da Gesù

L’episodio raccontato dal Vangelo di Giovanni al capitolo 20 è illuminante: l’incredulo Tommaso, che ha bisogno di vedere e di toccare per poter credere, mette la sua mano nel costato aperto del Signore, e ora, nel toccare, riconosce l’intoccabile Verbo eterno e lo tocca realmente; guarda l’invisibile Dio e lo vede realmente. Dall’esperienza fisica del corpo di Cristo scaturisce la fede e l’amore: «Mio Signore e mio Dio!».

È simile a quello che capita a noi nel ricevere il corpo di Cristo nell’Eucaristia: mangiamo fisicamente un cibo “spirituale” e tutta la nostra persona è coinvolta nel vivere l’incontro reale con il figlio di Dio che gli occhi non vedono, ma il cuore ama appassionatamente.

 

La visione dell’invisibile nel visibile è l’evento pasquale

Lasciamoci guidare ad un ulteriore approfondimento dalle belle espressioni di san Bonaventura: «La ferita del corpo mostra dunque la ferita spirituale... Vediamo, attraverso la ferita visibile, la ferita invisibile dell’amore!».

Il corpo di Cristo, la ferita del suo costato, è la realtà concreta, verificabile che mi permette di passare alla realtà dello Spirito e di fare l’atto di fede. Il corpo di Gesù diventa la «scala» sulla quale possiamo salire guardando, sentendo e sperimentando la realtà spirituale di Dio. 

Noi tutti siamo Tommaso, l’incredulo; ma noi tutti possiamo, come lui, toccare, con l’amore del nostro cuore, il Costato aperto di Gesù; quindi toccare, guardare il Figlio di Dio, la seconda persona della Trinità, il Logos, il Verbo eterno, e così, con la mano e gli occhi rivolti a questo corpo, giungere alla confessione di fede: «Mio Signore e mio Dio!».

 

Condizioni per una vera devozione

Per queste implicazioni di fede la devozione al Sacro Cuore non può essere ridotta ad alcune pie pratiche ripetute meccanicamente e distrattamente, ma non può essere riservata neppure a delle celebrazioni liturgiche più o meno maestose. Deve coinvolgere tutta la nostra persona perché si tratta di una esperienza d’amore da persona a persona che determina una relazione stabile con Gesù persona divina che vuole trasformare anche la nostra fragile umanità in un capolavoro d’amore destinato alla risurrezione.

La nostra devozione al Sacro Cuore raggiunge il livello della fede amorosa solo se è preparata e accompagnata da alcune condizioni del nostro modo di agire, di pensare, di vivere.

La meditazione della Parola deve quotidianamente portarci ad  un  «sostare meditativo» che ci sintonizza con la volontà di Dio. La risposta da parte nostra sarà la docile disponibilità al volere di Dio che si manifesta minuto per minuto nelle vicende umane vissute con spirito di servizio ai fratelli. La preghiera riempirà il nostro cuore e fiorirà sulle nostre labbra prendendo di volta in volta il tono del ringraziamento, della supplica, dell’intercessione, della richiesta di perdono.

È in queste condizioni che il nostro spirito comincia a vedere in profondità i “segni dell’amore” così evidenti nel corpo di Cristo, nel suo costato trafitto, e si lascia poi coinvolgere nell’infinito Amore che lo anima.

Se c’è meditazione, preghiera, interiorità, allora anche i nostri sensi sono coinvolti nella visione del cuore che va al di la del visibile e entra in un colloquio d’amore con Gesù.

Infatti «solo con il cuore si vede bene», come fa dire Saint-Exupéry al suo piccolo principe, che può essere preso anche come un simbolo di quel «diventare come bambini»  proposto da Gesù.