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Alfabeto familiare: Ancora G come come Generazione

di Don Roberto Carelli, salesiano

Ancora G come Generazione

I figli: questi esseri meravigliosi tanto vezzeggiati quanto viziati, troppo tutelati e troppo esposti, a volte coperti di doni e deprivati di affetto, altre volte soffocati di affetto ma soli di fronte alla vita. Il primo elementare dovere nei loro confronti sarebbe quello di non derubarli dell’infanzia, non sottrarli prematuramente alle cure di mamma e papà, alla prima palestra della vita che è il nido familiare, dove imparano ad appartenere ad altri e ad essere se stessi.

La scomparsa dei bambini

Succede però che i bambini vengono adultizzati: vedono tutto e sanno troppe cose, sono consultati nelle decisioni e prontamente esauditi nei loro bisogni, vengono rassicurati per piccoli disagi e protetti per piccoli conflitti, gli si dilatano i tempi di esposizione ai media e si riducono loro i tempi di silenzio e raccoglimento. Insomma, un eccesso di libertà unito a un eccesso di tutela. E così finiscono per tenere in scacco gli adulti, diventando “piccoli sovrani” o “piccoli tiranni”. Presto saranno adolescenti insicuri, non importa se ribelli o conformisti, e nondimeno si mostreranno sicurissimi nel valutare la stabilità degli adulti come rigidezza e incapacità di comprendere. 
In compenso, gli adulti vengono infantilizzati, e non senza essersela cercata: lasciandosi silenziare da una cultura che toglie peso a ogni tradizione di senso, ad ogni significato oggettivo e a ogni valore non negoziabile, una cultura che sposta l’asse dell’educazione dalla famiglia alla scuola e allo stato, risultano molto insicuri e poco autorevoli, e alla fine, senza averne intenzione, insignificanti o autoritari.

I figli del desiderio

Guachet osserva che tutto questo avviene per la sovversione del giusto rapporto fra nuzialità e fecondità: nella famiglia tradizionale era la famiglia a fare i figli, nella famiglia affettiva sono i figli a fare la famiglia, a generarla e a tenerla unita. Essi sono i cosiddetti “figli del desidero”, non tanto il frutto dell’amore degli sposi, quanto l’oggetto dell’amore dei genitori. Il che, osserva la Scaraffia, non è liberante per nessuno: “né per i genitori, che fanno dipendere il loro legame dai figli, né per i figli, interiormente costretti ad esaudire i desideri dei genitori”. Ciò è imbarazzante e schiacciante, perché i figli, centralizzati nel desiderio dei genitori, stentano poi a decentrarsi, sviluppando le tossine dell’inibizione e del risentimento.

Accade allora qualcosa di strano, che fa saltare la sana dialettica educativa, che in buona sostanza sta nella conquista della libertà, nel passaggio dalla dipendenza all’autonomia. I figli del desiderio, troppo adultizzati e troppo tutelati, a parole sono riconosciuti liberi ma in concreto sono poco liberi. In realtà – spiega ancora Gauchet – “per divenire effettivamente autonomi non bisogna essere subito posti come tali”, perché “ne vengono personalità in cui una viva aspirazione all’indipendenza non si separa da una dipendenza di fatto: a un senso esasperato dei diritti individuali si accompagna una completa indifferenza per gli strumenti effettivi dell’autonomia”.

Le angosce dei genitori

A riprova, i più attenti osservatori rilevano nei genitori di oggi due forme di angoscia che derivano dal livellamento delle età della vita e dal capovolgimento del fulcro educativo dalla responsabilità adulta all’esigenza giovanile, dal conferimento di senso all’accudimento dei bisogni.

La prima angoscia sta nell’esigenza di sentirsi amati dai figli: “non sono più i figli – spiega Recalcati – che domandano di essere riconosciuti dei loro genitori, ma sono i genitori che domandano di essere riconosciuti dai figli. In questo modo la dissimmetria generazionale viene ribaltata: per risultare amabili è necessario dire sempre sì, eliminare il disagio del conflitto, delegare le proprie responsabilità educative”.

La seconda grande angoscia sta invece in una sindrome da prestazione che sfocia nell’incapacità di sopportare i limiti dei figli: “lo scacco, l’insuccesso, il fallimento dei propri figli – osserva Recalcati – sono sempre meno tollerati. Di fronte all’ostacolo la famiglia ipermoderna si mobilita, più o meno compattamente, per rimuoverlo senza dare il giusto tempo al figlio di farne esperienza. Ma, come ha scritto Sartre, se i genitori hanno dei progetti per i loro figli, i figli avranno immancabilmente dei destini, e quasi mai felici. Ne consegue che i nostri giovani non sopportano più lo scacco perché a non sopportarlo sono innanzitutto i loro genitori”.

Ora, certo, il bene dei figli dipende dallo sguardo dei genitori, ma non da uno sguardo che li mette al centro, ma che li attraversa e li fa crescere perché viene da altrove e va più lontano. Tre cose sono da ricordare per l’educazione dei figli:

  1.  i figli si guardano come i genitori li guardano: il compito dei genitori è più benedire che accudire! Incoraggiare e correggere sì, ma via le parole giudicanti e umilianti, e occhio a non esagerare con le lodi
  2.  i figli si guardano come i genitori si guardano: per imparare ad amare devono vedere l’amore, per sentirsi amati hanno bisogno di vedere che papà e mamma si amano, che il fiume della loro vita ha una sorgente felice! Come possono imparare il rispetto e la gentilezza se i genitori non si trattano bene?
  3.  i figli si guardano come i genitori guardano insieme a Dio: la fede si educa con la testimonianza, più con l’esempio che con le parole! Dio è invisibile: si impara a vederlo nel volto, nei gesti, nella devozione di chi lo ha incontrato!