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I migranti nel progetto di Dio secondo la visione profetica di G.B. Scalabrini

P. Graziano Tassello

Leggere la realtà con gli occhi della fede
Leggiamo negli Atti degli Apostoli: "In quel giorno scoppiò una violenta persecuzione contro la chiesa di Gerusalemme; tutti, ad eccezione degli apostoli, si dispersero nelle regioni della Giudea e della Samaria. Quelli però che si erano dispersi andarono di luogo in luogo, annunciando la Parola" (Atti 8,1.4).
 
Questi profughi cristiani, costretti a cercare una nuova terra, divengono i missionari della buona novella del Signore. Spesso nei documenti della Santa Sede si fa riferimento esplicito alle migrazioni come strumento di diffusione del cristianesimo nei primi secoli. Questo processo di evangelizzazione attraverso le migrazioni è continuato anche dopo i primi secoli di storia della chiesa. Potremmo citare innumerevoli esempi, tra cui la peregrinatio pro Domino dei monaci irlandesi - come San Gallo e San Colombano - nel VII-VIII secolo e la diffusione della fede cristiana in molte aree dell'Europa attraverso la loro predicazione.
Dopo la Rivoluzione francese, nella chiesa in Europa si riscopre l'importanza delle iniziative di carità e della cura rivolta al volto sofferente dell'umanità. Sorge in quegli anni un numero straordinario di congregazioni religiose che si dedicano a tale intento. Accanto al servizio ai più poveri della società, tanti missionari e missionarie si sentono chiamati a portare Cristo fino agli estremi confini della terra. La spinta alla missionarietà non sembra conoscere confini.
 
Agli inizi del XIX secolo si sviluppa un fenomeno nuovo: l'esodo di massa di migranti soprattutto dall'Europa verso le Americhe o verso altre nazioni europee. Diverse figure di grande spessore all'interno della chiesa (tra cui alcuni santi o beati) s'impegnano per far fronte alle necessità materiali e spirituali di questa umanità in movimento. Tuttavia, non possiamo affermare che il fenomeno abbia costituito una priorità nell'agenda pastorale dei vescovi del tempo. Spesso gli immigrati erano visti come un elemento di disturbo, se non addirittura come un pericolo. Possiamo citare, a tale proposito, un articolo apparso sul giornale cattolico Times-Union di Jacksonville (Florida), il 4.6.1891, per comprendere l'atmosfera che regnava:
 
"Soprattutto gli italiani non sono assimilabili, e si dovrebbero adottare misure per controllare l'invasione degli immigrati da quella nazione... La nostra nazione deve smettere di essere il ricettacolo di quella che è la più degradata e criminale popolazione d'Europa... È nostro dovere come nazione prendere misure per proteggere noi stessi e la nostra civiltà superiore da ogni pericolosa contaminazione".
 
Un profeta controcorrente
Nell'America del XIX secolo, pertanto, ritenere che i migranti, soprattutto quelli di più recente immigrazione, potessero contribuire alla vita della chiesa era, a dir poco, insolito. Negli USA erano in molti a sostenere che investire nella pastorale degli italiani - gli ultimi arrivati - fosse tempo perso: uno spreco di energie e di personale.
 
G.B. Scalabrini (1839-1905) era al corrente di quest'ottica di lettura del fenomeno. Ma il vescovo di Piacenza era guidato da una visione nuova della realtà, che egli sentiva il dovere di annunciare.
Come accennato, non era l'unico ad interessarsi dei migranti. Sarebbe, ad esempio, prezioso indagare la storia dei missionari partiti dalla Svizzera e dalla Germania per evangelizzare gli indiani pellerossa e subito impegnatisi anche a mantenere viva la fede degli immigrati di lingua tedesca negli USA. Si può ricordare, ad esempio, l'arcivescovo di Milwaukee Johann Martin Henni (1805-1881), nato in Svizzera nel Canton Grigioni e morto in Wisconsin, fondatore del primo giornale tedesco cattolico negli USA e strenuo difensore del rispetto delle diverse culture. Egli sosteneva, tra l'altro, che in una situazione di emigrazione la preservazione della lingua materna favorisce anche il mantenimento della fede.
 
Quello che rende originale Scalabrini non è tanto e non solo il suo impegno pastorale a favore dei migranti, quanto la sua visione del fenomeno stesso, che egli esplicita in un discorso tenuto in francese al Catholic Club di New York. Durante il suo viaggio negli Stati Uniti, il vescovo di Piacenza deve essere stato colpito dalle potenzialità di quella nazione. Potremmo riassumere i suoi sentimenti utilizzando la musica di un altro illustre visitatore, il musicista cattolico boemo (nato a Praga) Antonín Dvořák che nella primavera del 1893, mentre era a New York, scrisse la sua opera più celebre, la Sinfonia n. 9 detta Dal nuovo mondo.
 
Ma al di là del fascino che il nuovo mondo ha esercitato su G.B. Scalabrini, l'interpretazione del fenomeno migratorio illustra la sua intuizione e il suo coraggio, tipici appunto di un profeta autentico. Scalabrini sostiene che i migranti, questi "paria della società" - oggi, usando l'espressione di un sociologo molto citato, Zygmunt Bauman, li definiremmo "vite di scarto" - possono contribuire alla vita civile e religiosa scuotendo le coscienze e divenendo una risorsa.
 
È evidente che non potremmo capire in profondità questo amore di Scalabrini per i "rifiuti" della società, che egli definisce invece una risorsa, se non tenessimo conto del comportamento di Dio così come ce lo presenta la Bibbia. Egli ripone la sua fiducia totale nei piccoli ed è attraverso di loro che compie grandi opere.
 
Scalabrini ricorda questa sua visione, quando riferisce a Papa Leone XIII della sua visita al Presidente degli Stati Uniti, Theodor Roosevelt: "Nessuno per ora si rende conto che l'immigrazione è una risorsa straordinaria, un grande regalo per un paese che è in corso di costruzione. La vedono come un problema di carità...".
 
Il suo pensiero al riguardo si affina ulteriormente nel Memorandum che nel 1905 invia alla Santa Sede, in cui definisce l'emigrazione un "dilagare placido delle acque che fecondano. Non più soppressioni di popoli, ma fusioni, adattamenti, nei quali le diverse nazionalità s'incontrano, s'incrociano, si ritemprano e danno origine ad altri popoli"1. Questo processo di fecondazione porta gradualmente alla costruzione di un'umanità e fraternità universali2.
 
Le migrazioni come risorsa
Quali sono le conseguenze di una rilettura in chiave attuale dell'interpretazione che Scalabrini dà delle migrazioni? Il fenomeno continua a rimanere uno dei temi più controversi e carichi di emotività e di conflittualità. La visione di Scalabrini fa paura perché ci dice che i migranti pongono problemi nell'immediato, ma non sono il problema. Proviamo ad applicare tale visione ad alcuni settori vitali della nostra esistenza:
 
Risorsa per la chiesa locale
Per comprendere questo, possiamo pensare in questo momento alle migrazioni in Medio Oriente dove registriamo un forte esodo di cristiani sottoposti a severe persecuzioni, sebbene - come giustamente ricorda René Guitton, scrittore e giornalista francese - dovremmo puntare il dito contro l'indifferenza laicista dell'Europa verso i pogrom dei cristiani di quelle regioni.
 
"Le chiese orientali hanno un patrimonio spirituale meraviglioso: santi padri e dottori hanno illuminato queste comunità e la chiesa intera. Tanti martiri hanno testimoniato la loro fede in Cristo. Le loro liturgie sono una partecipazione alla Gerusalemme celeste"3. Chi ha dovuto emigrare può condividere questa ricchezza con i fratelli occidentali. Per alcune chiese orientali la diaspora è, in effetti, più numerosa della comunità presente in patria e il compito più urgente è un'adeguata cura pastorale. La recente Assemblea speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei vescovi ha affermato: "La presenza di numerosi cristiani d'Oriente in tutti i continenti interpella le chiese ad adottare una pastorale specifica dell'emigrazione"4.
 
La crescita delle diaspore cambia il volto delle chiese locali. In molte città europee, americane e latinoamericane vivono minoranze cospicue di cattolici orientali. A Stoccolma addirittura gli iracheni caldei costituiscono l'80% dei cattolici presenti in città5.
 
Il rovescio della medaglia è l'arrivo in tutto il Medio Oriente di immigrati cristiani soprattutto asiatici e africani. Turchia, Grecia, Libano, Siria, Israele, Egitto e Giordania come i paesi del Golfo sono fortemente sollecitati da flussi migratori che stanno ridisegnando le mappe civili ed ecclesiali.
Nella penisola araba i cattolici immigrati sono ormai 3 milioni (su una popolazione totale di 65 milioni di abitanti). In Arabia Saudita i cattolici (1 milione e 250 mila) sono il 5,04% della popolazione, mentre picchi più elevati si registrano in Kuwait con l'11,19% (300'000 persone) e negli Emirati Arabi con il 12,16% (580'000 persone). Ad Abu Dhabi, capitale degli Emirati Arabi Uniti, la cattedrale cattolica rappresenta l'unica parrocchia dell'Emirato: vi sono registrati 100'000 fedeli di 100 nazionalità diverse. Dal venerdì alla domenica si susseguono a ritmo serrato 16 celebrazioni eucaristiche nelle più diverse lingue.
 
Ma non si tratta solo delle migrazioni dei cristiani da e per il Medio Oriente. Ad esempio in Norvegia la maggioranza dei cattolici è composta da vietnamiti e filippini. E del resto, uno sconvolgimento statistico nel numero dei cattolici era già avvenuto decenni fa in Svizzera con l'arrivo degli italiani, degli spagnoli e dei portoghesi. Chiaramente l'immissione di nuovi immigrati - convertiti di recente al cristianesimo, o provenienti da ricche tradizioni religiose - dona una vivacità insperata alle nostre vecchie chiese.
 
Non fermiamoci soltanto ai numeri. Uno dei fenomeni più significativi che sta segnando profondamente molte nostre comunità e parrocchie, dopo quello della secolarizzazione, è certamente quello della mobilità. L'immigrazione si rivela come "segno dei tempi", un luogo in cui la fede e l'esperienza ecclesiale sono chiamate a ripensarsi e a riorganizzarsi. Del resto non è possibile immaginare una chiesa statica. L'immigrazione sollecita la chiesa a capire che la pastorale non è un'opera d'ingegneria ecclesiastica, ma un impegno vero a tentare di vivere in pienezza la nota della cattolicità.
 
Quando si parla di cattolicità della chiesa, s'intende il suo carattere universale, perché il vangelo da essa annunciato è destinato a tutti gli uomini di tutti i tempi, senza distinzione di razza, sesso, lingua o nazione. Per essere vissuta in pienezza la cattolicità deve farsi però anche qualitativa. La cattolicità qualitativa non consiste "solo nell'apertura universale dell'annuncio, ma anche nella capacità della chiesa di incorporare in sé l'immensa varietà della condizione umana in tutte le sue legittime manifestazioni"6. La cattolicità consiste non solo nell'accogliere le diverse etnie, ma soprattutto nel realizzare la comunione tra tali etnie.
Nella chiesa locale ciò significa anche superare una pastorale solo monoculturale. Da questa visione trae origine una pastorale specifica e specializzata che permetterà al migrante, considerato troppo spesso solo una persona da assistere, di divenire protagonista e scoprire una sua vocazione unica nella chiesa.
Nella situazione di diaspora la fede non può essere semplicemente un'eredità da proteggere, ma ancor più una realtà da approfondire, verificare e sviluppare nel contesto della chiesa particolare. Il migrante si scopre missionario.
 
Risorsa per me
Richiede un forte spirito di fede mettersi alla ricerca dell'altro in quanto altro, e del suo volto così come Dio lo desidera: un cammino di avvicinamento costante, che ci fa uscire dai nostri ghetti e ci proietta verso orizzonti nuovi. Il contatto con il migrante ci sollecita ad acquisire una mentalità più universale, meno localistica. Ci accorgiamo di avere bisogno dell'altro per evitare il pericolo dell'omologazione e per far sì che la differenza diventi ricchezza e si trasformi in sinfonia delle differenze. Leggiamo nel libro del Siracide (42,24-25): "Tutte le cose sono a due a due, una di fronte all'altra, egli non ha fatto nulla d'incompleto. L'una conferma i pregi dell'altra: chi si sazierà di contemplare la sua gloria?". "Impostare relazioni paritarie significa riconoscere che tutti abbiamo una ricchezza da dare e da ricevere", ricordano i Vescovi lombardi in un loro recente messaggio sul tema dell'immigrazione.
Ci rendiamo conto che come cristiani siamo chiamati a metterci sempre in esodo e che, facendo nostra questa visione, ci rendiamo differenti dagli altri, esponendoci anche a persecuzioni.
 
Risorsa per la società 
In passato si parlava di compassion fatigue ("Non possiamo farci carico di tutti i mali del mondo!"); oggi si parla di burden sharing, di condivisione del "peso" rappresentato dagli immigrati (anche se l'Europa non ne vuole sapere!). Al di là dell'immediato, della spettacolarizzazione del dolore, i numeri parlano chiaro e portano a concludere che l'immigrazione è una risorsa: in Germania ad esempio, secondo un articolo del New York Times, nei prossimi 15 anni crescerà fortemente la popolazione anziana e se non arriveranno stranieri nessuno si prenderà cura di loro.
Ma anche qui non è solo questione di numeri e di calcoli economici. Le migrazioni sono una risorsa in quanto ci obbligano a non fermarci all'immediato ma a pensare al futuro.
 
Quale cittadinanza, quale governance globale, quali investimenti nei paesi poveri? Serve il coraggio di esplorare strade nuove. Le nuove immigrazioni ci fanno toccare con mano i fallimenti delle nostre politiche di basso profilo. Chi parla più di cooperazione internazionale? Quanti tagli sono stati operati agli Obiettivi del Millennio, che miravano a dimezzare entro il 2015 la percentuale della popolazione mondiale che soffre la fame?
I paesi ricchi non possono disinteressarsi del problema migratorio e ancor meno chiudere le frontiere o inasprire le leggi, tanto più se lo scarto tra le nazioni ricche e quelle povere, dal quale le migrazioni sono originate, diventa sempre più grande. S'impongono invece una riflessione ed una ricerca di più rigorosi criteri di giustizia distributiva applicati su scala mondiale, anche per la tutela del bene universale della pace.
Occorre ipotizzare soluzioni politiche e legislative complesse che ci portino verso una sola famiglia, come afferma il Messaggio del Papa in occasione della Giornata mondiale dell'emigrazione del 2011.
 
Conclusione
Un canonico di Piacenza un giorno ebbe ad osservare: "Scalabrini non lascia in pace nessuno".
Questa visione provvidenzialistica delle migrazioni, presente nella Bibbia, fatta propria e proposta da G.B. Scalabrini, tormenta le coscienze ed esige risposte che vanno spesso controcorrente. Tale visione si rivela quanto mai attuale e, per grazia di Dio, non è finita con Scalabrini, ma continua ad essere annunciata e vissuta dalla Famiglia Scalabriniana, cioè, continua nei suoi "figli" e "figlie". E alle Missionarie Secolari Scalabriniane che l'hanno fatta propria nelle loro scelte di vita in questi primi 50 anni del loro cammino va tutta la nostra riconoscenza.