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Ciad: Una piroga sul Chary

di Chiara Bertato (B.S.)

La spericolata pensione di don Franz 

«Ho studiato trent’anni e non mi sento un intellettuale, ho vissuto per altrettanto tempo con gli emarginati e non sono un escluso, vivo da dieci anni in un paese straniero e mi sento a casa.
Lo studio mi ha reso curioso e mi dà la gioia di scoprire cose nuove, la vita senza sicurezze mi ha abituato ad accontentarmi in ogni occasione, l’essere straniero mi fa rispettoso della cultura e dei modi di vivere di altri popoli».

Si descrive così don Francesco Cremon, da tutti conosciuto come Franz, che a 71 anni scorazza in moto per la savana come un ragazzo.
La sua è sempre stata una vita spesa, prima nella zona di Verona con i ragazzi di strada e tossicodipendenti poi, anziché la pensione, è arrivata una nuova missione: il Ciad.
“Avevo una pallida idea di dove si trovasse questa nazione... Non sapevo che ha un’estensione quattro volte l’Italia, metà nel deserto del Sahara e metà nella savana tropicale, con una popolazione di circa 11 milioni di abitanti, suddivisi in 300 etnie diverse, alcune stanziali, altre ancora nomadi.
Uno dei paesi più poveri del pianeta, flagellato da carestie, malattie e da guerre.
Avevo 60 anni e mi trovavo ad essere catapultato nel cuore geografico dell’Africa nera...
Credevo finita la mia storia di pazzia, invece incominciava la più rischiosa”.

Dare calci era la mia passione
Una storia con il fascino della semplicità eroica.
«A nove anni ero stato messo in collegio dai Salesiani per frequentare la quinta elementare. La campagna non aveva bisogno delle mie braccia; papà e fratelli erano tornati, miracolosamente, dalla guerra, ero in più!
In collegio mi sono trovato a mio agio e con don Bosco ci sono tuttora.
I miei primi trent’anni li considero anni di preparazione e di formazione. Non ho mai brillato per l’acutezza dell’intelligenza, l’apprendimento mi è sempre stato difficile, la memoria e l’emozione mi hanno spesso giocato cattivi scherzi, non so ancora quale santo si muovesse in mio soccorso, ma alla fine dell’anno venivo ammesso alla classe superiore.
In questo modo sono riuscito a passare illeso gli anni di filosofia e di teologia. Non sono mai riuscito a capire perché si dovessero scrivere e farci studiare così tanto cose del tutto ovvie ed evidenti.
L’esistenza di Dio? è così palese che anche un cieco la vede. La santa Trinità? è un mistero che solo Gesù ce lo ha rivelato. Basta fidarci di lui. Gesù è figlio di Dio e uomo? Come si può dubitarne?
Brillavo, invece nello sport, dare calci era la mia passione!
Dove e quando si trattava di mettere in evidenza manualità, senso pratico, fare fatica per preparare un ambiente, una festa, una celebrazione… era il mio divertimento, il mio riscatto, valevo».

Vivere per la strada
«Così è stato tenuto conto più di quanto riuscivo a donare che non di quello che riuscivo a dire ed il 18 maggio 1971 sono stato ordinato sacerdote.
Un breve periodo a Bolzano, incaricato dei giovani convittori e poi a Verona, richiesto di aiuto da parte di don Sergio Pighi. Con don Sergio ho vissuto i secondi trent’anni della mia vita. Non mi veniva chiesto né di filosofia, né di alta teologia, ma di vivere alla giornata, di abitare la strada, di condividere case diroccate con giovani usciti di carcere, senza una famiglia, ingolfati di droghe, bruciati negli ideali, privi di fiducia in se stessi e in tutto, spesso solo in attesa di morire.
Quale visione dell’universo potevo offrire loro al di fuori del vivere di ogni giorno con semplicità?
Riscoprire insieme le piccole cose, i gesti di solidarietà condivisi, il perdono accordato e ricevuto, il mettere l’altro con la sua sofferenza al primo posto, l’accontentarsi di quanto è stato guadagnato con il proprio sudore, rispettando la fatica e le cose dell’altro…
Così sono passato da una soffitta all’altra, da una casa diroccata ad una messa peggio, dalla diffamata via Erice all’abbandonata e solitaria valle di Pian di Festa.
Non sono mai riuscito a individuare chiari i limiti tra incoscienza e audacia, tra pazzia e coraggio, tra stupidità e saggezza… sta di fatto che sempre la Provvidenza ha mandato qualcuno a salvarmi.
E sono arrivato a 60 anni. Credevo finita la mia storia di pazzia, invece incominciava la più rischiosa. Sono già trascorsi dieci anni!

Tra scuole e piste polverose
Così, ora, don Franz svolge il suo servizio tra i numerosi villaggi lungo il fiume Chary: Mutumbin, Maimi, Sandana, Dagankolo, Tarako, Mussamere, Tarangara a sinistra e Baraka, Banda, Maibo, Congo Sarà, Maimana, Sako Banda, Doubadana a destra.
Una quarantina di centri abitati formati da popolazioni di diversa etnia e lingua, immigrati da tutto il Ciad nella speranza di trovare occupazione presso una grande coltivazione di canna da zucchero.
Questa coltura ha sottratto tutta la terra che un tempo era coltivata dai residenti, così non resta che un impiego saltuario.«La retribuzione ordinaria si aggira sull’euro e mezzo al giorno!
Il periodo di assunzione ha la durata di quattro settimane, quindi gli operai vengono lasciati un mese a casa e sono riassunti solo se danno un certo “contributo” ai capi squadra» denuncia don Franz.
Non ci sono ponti per passare da una sponda all’altra del maggior emissario del lago Ciad, per questo il salesiano usa una piroga.
Le strade sono sostituite da polverose piste che attraversano le arsure dello Schael ed il labirinto cespuglioso della savana.
«Sono per i villaggi che ho nominato, e per tanti altri, il realizzatore del pozzo dove gli abitanti ed i nomadi del circondario vengono ad attingere acqua ed i bambini hanno la possibilità di imparare a leggere e scrivere», sappiamo che l’opera del salesiano ha dato vita a 19 scuole a cui possono accedere anche le bambine, realizzato 15 pozzi, 3 granai comunitari e delle piccole farmacie di villaggio, 7 luoghi d’incontro per la preghiera, la catechesi, la formazione religiosa e civile della popolazione.
Lungo il fiume e attorno agli stagni si stanno sviluppando la coltivazione di ortaggi, un piccolo allevamento, attività di artigianato per la riparazione e costruzione di attrezzi, case...
«Si sta facendo strada una mentalità di partecipazione.
Incominciano a rendersi conto che lo sviluppo, il miglioramento delle condizioni di vita, non sono “dono” di altri, ma frutto del proprio impegno.
Si scopre che ci sono nel villaggio e nelle persone risorse che tornano a vantaggio di tutti».
L’ultimo pensiero è per tutte quelle persone che l’hanno accompagnato in questi temerari anni sempre in frontiera: «Volevo dire grazie a tutti coloro cui devo il mio essere contento oggi, anche se ho combinato tanto poco».
La cosa buffa è che lo pensa veramente…