Intervista di Don Fabio Attard, 11° Successore di Don Bosco (28 maggio 2025)
1. Sei stato eletto 11° Successore di don Bosco.
S. Giovanni Bosco è ormai patrimonio della Chiesa universale. Conosciuto e amato in tutto il mondo, viene pregato e invocato per essere guidati nell’educazione dei giovani. Il Signore ti ha chiamato a guidare la grande Famiglia Salesiana che è presente in137 Paesi dei 5 continenti. Quale ritieni che sia il servizio fondamentale a cui siete chiamati?
Anzitutto, credo che il Rettor Maggiore sia chiamato a essere il centro di unità, cioè colui che è chiamato a vivere quella stessa paternità che don Bosco ci ha trasmesso. Naturalmente, qui entra tutto un discorso più intimo e profondo: quando il Capitolo Generale chiama un confratello ad assumere questo ruolo, è l’espressione di tutta la Congregazione che invita una persona a rispondere a questa chiamata. Considerando con semplicità tutto quello che è la Congregazione salesiana, io ho usato due parole fin dalla prima condivisione con i confratelli: questa chiamata è un dono, ma anche una responsabilità.
Non è un dono rivolto a una singola persona, ma un dono che tutta la Congregazione vive, chiedendo a un confratello di assumere questa missione, perché di missione si tratta. Perciò sono chiamato al servizio dell’unità e della comunione che i miei fratelli chiedono. Unità e comunione perché la Congregazione salesiana si trova in contesti molto diversi tra di loro, per conseguenza c’è la diversità della espressione, ma c’è l’unità del carisma. Questa è una grande responsabilità davanti a Dio e davanti a ciò che crediamo fermamente sia l’azione dello Spirito nella vita di don Bosco e che continua oggi nella Congregazione salesiana.
Quando parliamo del carisma salesiano, intendiamo proprio l’azione dello Spirito che continua. Insieme a questa, c’è anche la comunione non solo tra di noi salesiani, ma tra tutti i gruppi della Famiglia Salesiana.
Nel mio discorso finale ho cercato di fare già una prima sintesi; poi naturalmente la responsabilità è del Consiglio Generale che indicherà quelle 4 o 5 linee condivise che saranno portate avanti. Fondamentalmente e in sintesi il Capitolo Generale ci ha chiamati a raccogliere la missione in due temi principali. Prima di tutto a livello di identità: ‘appassionati per Gesù Cristo’ che poi naturalmente si concretizza nella proposta pastorale, ‘appassionati, dedicati, consegnati ai giovani’. E queste sono due facce della stessa medaglia.
2. I Salesiani nella Chiesa.
La concomitanza della tua elezione a Rettor Maggiore per la Congregazione salesiana e di Papa Leone XIV come pontefice per la Chiesa è certamente provvidenziale. Quali convergenze e quale complementarietà nei programmi e nelle modalità, vedi necessarie e possibili?
Il `servizio alla Chiesa’ ci interpella profondamente. È un tema sottolineato anche da altre persone, e noi stessi, sia in ambito ufficiale sia non formale, lo abbiamo percepito. Un tema, per esempio che emerge, – che ho posto al centro del mio discorso conclusivo del Capitolo Generale – è quello dell’intelligenza artificiale; il Papa lo ha indicato come un tema su cui riflettere. Poi, in particolare, nel suo discorso dal balcone, parla di una Chiesa radicata in Cristo e capace di testimoniare, una Chiesa aperta al dialogo. Credo che qui ci siano due elementi fondamentali da richiamare: Prima di tutto la Chiesa continua sul suo cammino di autenticità e di disponibilità, che poi sono le due caratteristiche essenziali del Vangelo. Noi seguiamo Gesù in maniera autentica per il bene dell’umanità e credo che sono due linee che sono state ribadite continuamente da papa Francesco sia nella parola sia nella sua testimonianza personale.
Naturalmente questo è il cammino della Chiesa, non è il cammino di un Papa. Qui vediamo il cammino della Chiesa che continua. Lo stesso vale per la Congregazione. Amo richiamare il cammino della Congregazione a partire dal periodo post Concilio Vaticano II. I Capitoli Generali della Congregazione seguono una linea che rispecchia il cammino della Chiesa, per temi come la catechesi, l’evangelizzazione, la famiglia, i giovani, la centralità dell’Eucaristia, della Parola, la vita consacrata; c’è stato un profondo lavoro di approfondimento interno. C’è poi un’altra responsabilità che abbiamo: avendo al centro il tema giovanile, non lavoriamo solo per e con i giovani, ma siamo anche una memoria viva e più focalizzata rispetto a molte altre Congregazioni e diocesi. Quando ero consigliere per la pastorale giovanile, molte Congregazioni mi dicevano di seguire le nostre linee. Ora, da Rettor Maggiore, incontro Superiori Generali che riconoscono di ispirarsi al nostro cammino. Questa convergenza, che non è casuale, è anche uno stimolo a confermare e rilanciare il nostro percorso.
In più, noi salesiani siamo profondamente devoti e dediti al Papa. Questa caratteristica nostra è viva, forte e convinta, e grazie a Dio continua così. Questa concomitanza è capitata anche in passato, come nel passaggio tra i Rettor Maggiori don Ricceri e don Viganò, e i Papi Paolo VI e Giovanni Paolo II. Perciò è importante leggere queste realtà “temporali” alla luce della vita ecclesiale, per rafforzare sempre di più la nostra dedizione e l’offerta di noi stessi e del carisma, che è per il bene non solo dei giovani, ma dell’intera Chiesa.
3. Le richieste dei giovani.
Le tue precedenti esperienze ti hanno messo a contatto con i giovani di continenti diversi che crescono e si formano a contatto con una società in troppo rapida evoluzione. Quali sono le richieste più urgenti da parte dei giovani che tu hai raccolto e quali risposte sono possibili?
Questa domanda mi viene spesso posta da chi sa che ho girato il mondo. Prendo sempre un po’ di tempo e rispondo sempre allo stesso modo: Viviamo in un mondo globalizzato e – pensando soprattutto a chi ha più di 50 anni – fatichiamo ancora a cogliere la globalizzazione anche nell’immaginario dei giovani. I nostri giovani vivono nella rete e costruiscono il loro modo di pensare e comunicare usando un vocabolario virtuale. Cosa significa? Da una parte c’è un certo appiattimento delle varie diversità, indipendentemente dal continente, cultura o contesto; ma allo stesso tempo emerge la sete profonda che abita il cuore di ogni persona umana. Lo affermo con sicurezza perché ho incontrato giovani in 75 Paesi, in tutti i continenti, in alcuni posti per parecchie volte e ultimamente durante le visite straordinarie chiedevo sempre di incontrare i giovani nelle scuole, università, centri giovanili, parrocchie… Esiste una domanda di senso che emerge soprattutto quando c’è un ambiente di autenticità.
Quando ci sono adulti significativi, autentici, onesti, emergono nel cuore dei giovani le domande più fondamentali, indipendentemente dalla religione, dalla cultura, dal contesto. Le stesse domande che ho sentito dai giovani in Vietnam, le ho sentite in India, le ho sentite in Paesi dell’Africa, Paesi dell’Europa e Paesi dell’America Latina. Inizialmente, mi ha sorpreso, positivamente, il fatto che in Oriente si ascoltino le stesse domande dei giovani di Sud, Nord e Occidente.
E questo ci interpella, prima di tutto, se noi stiamo capendo questa generazione giovanile. Qualcuno dice che difendo sempre i giovani. È vero, e c’è un motivo. Parliamo di una generazione fragile? Allora procediamo con calma. Sono fragili perché questa è la loro identità, o perché non abbiamo offerto loro un ecosistema che favorisca la crescita umana, spirituale, affettiva e intellettuale? Posso avere una pianta bellissima e delicata, ma se la metto nel posto sbagliato diventa fragile; al contrario, se la metto in un ambiente con aria e luce sufficienti, senza sbalzi termici, diventa forte. E questo lo vediamo, ma in maniera estremamente netta, quando incontriamo giovani negli ambienti dove si offre loro una proposta sana di una umanità riuscita, a prescindere dal fatto che siano cattolici, cristiani di altre denominazioni, induisti, musulmani, buddhisti, o agnostici.
E questa è la grandezza di Don Bosco: scendendo nel cuore umano, specialmente quello dei giovani, si trova una dimensione mistica della persona, indipendentemente da affiliazioni culturali, etniche o religiose. Quando i giovani incontrano l’autenticità, la loro autenticità viene a galla. Sono come le calamite, no? C’è l’attrazione! Eppure noi, soprattutto in questa società, stiamo offrendo un modello economico, culturale, ideologico, dove i giovani sono clienti, i giovani sono numeri, i giovani sono lì per essere sfruttati.
Quando Papa Francesco raccomandava: `Non lasciate che nessuno vi tolga la speranza, vi rubi la speranza’, stava dicendo una cosa molto profonda. Cosa facciamo noi nei nostri ambienti? Riusciamo a restituire ai giovani la capacità di sperare e di essere autentici, creando ambienti che favoriscano questo? Più guardiamo alla situazione mondiale, più capiamo che anche le sfide sono globali, non solo le difficoltà. Per questo, quando si dice che i problemi sono globalizzati, è vero; le sfide pure. E ciò implica la necessità di risposte globali. Come si spiega allora, per esempio, il nostro lavoro come salesiani? Che noi, indipendentemente dal contesto, dappertutto, riusciamo a comunicare un ambiente di accoglienza, lo chiamiamo spirito di famiglia. Incontrare giovani induisti, buddisti, musulmani o agnostici e sentirli parlare con entusiasmo e gioia della proposta di Don Bosco non è questione di proselitismo o conquista, ma di offrire uno spazio dove può emergere un’umanità compiuta. I giovani percepiscono subito questo. Oggi la presenza di adulti significativi è sempre più rara, ed è una grande responsabilità per noi salesiani. Abbiamo il dono del sistema preventivo, del carisma salesiano, e guai a noi se non lo viviamo pienamente! Alla fine della vita il Signore ci chiederà: cosa hai fatto con il talento ricevuto? L’hai nascosto per paura o lo hai usato? Perciò io guardo il mondo come un globo davanti a me, non come un globo che mi sovrasta. Non mi fa paura, al contrario mi entusiasma. Perciò l’atteggiamento di ascolto, l’atteggiamento di rispetto.
Qui entra tutto un tema: il paradigma di Emmaus. Gesù che cammina con questi due discepoli, prende la strada sbagliata pur di ascoltarli, perché solo quando loro si sono sentiti ascoltati, erano pronti per ascoltare, intanto continuando la strada sbagliata, fuori Gerusalemme, non c’è problema. Perché quello che offriva l’esperienza era più importante della direzione del cammino, perché poi il punto finale di quell’esperienza era riprendere il cammino a rovescio. Anche con i nostri giovani oggi, non dobbiamo avere paura di ascoltare le loro storie e dal momento che noi ascoltiamo loro poi si aprono all’ascolto di quello che noi siamo, non tanto di quello che noi diciamo.
4. Chi costruisce e chi demolisce.
Tutti guardano ai giovani sognando il futuro per loro. Alcuni sono coscienti che è un loro compito e una precisa responsabilità, ma aumentano sempre più persone e agenzie che, per svariate ragioni, rivolgono la loro attenzione ai giovani. Chi sono i veri alleati e da quali nemici dovete difendere i giovani?
Qui rispondo in modo antitetico, mi spiego. Noi stessi diventiamo nemici se commettiamo il peccato dell’omissione. C’è un male fatto attraverso il peccato delle azioni compiute, ma c’è un male fatto perché il bene che si deve fare non si fa e siccome la natura non tollera il vacuum, il vuoto, il bene non fatto, non condiviso, si riempie con il vuoto dell’indifferenza, dall’assenza di proposte.
In qualche modo possiamo dire che il vuoto diventa contenuto, in maniera antitetica, in maniera contraddittoria, e i nostri giovani finiscono senza futuro perché nel presente c’è il vuoto. Ecco perché chi è chiamato a essere pastore, educatore, deve assumersi questa responsabilità, consapevole che anche poco, se offerto, è meglio di nulla.
Noi siamo salesiani — e guardiamo sempre il bicchiere mezzo pieno, vero? — e questo significa che non mi interessa tanto analizzare chi siano i nemici, quanto investire tutta la mia energia nelle proposte che possiamo fare, senza essere né ingenui né naïf rispetto alle forze negative presenti. Ma io non sto lì ad analizzare le forze negative, sono lì a riconoscerle. Le forze negative sono una sfida per me perché, al male che esiste, io rispondo con il bene che noi siamo. Cioè noi sappiamo bene che nelle nostre scuole, nei nostri collegi, oratori, etc., per la maggior parte dei nostri giovani la casa non è più un focolare, la casa è il posto dove loro mangiano e dormono, non dove vivono.
L’esperienza del COVID ci insegna in maniera plateale che le grandi crisi che c’erano durante il COVID erano precisamente perché le nostre case, in questa cultura, non sono luoghi di umanizzazione ma luoghi di servizio. Uno non può passare 24 ore in un appartamento. In effetti sono le problematiche che abbiamo visto. La domanda è: quando noi accogliamo, quando apriamo le nostre porte ai giovani, noi stiamo ripetendo proposte anonime, per non dire banali, o stiamo offrendo spazi di umanità?
Un esempio di Don Bosco: nelle vite dei tre giovani scritte da lui – Bartolomeo Garelli, Besucco Francesco, Domenico Savio – c’è un paradigma che si ripete, la prima cosa che Don Bosco fa è chiedere: `Chi sei, come stai, da dove vieni?’ C’è una dimensione umana che, per così dire, è quasi la prima pedina del domino che cade. Quando l’umanità prende avvio e si sente viva, tutto il resto segue. Ecco perché per noi il cortile, la presenza, il sacramento della presenza, oggi in un mondo anonimo, individualista, frammentato, diventa l’antidoto più bello, più semplice, per conseguenza più significativo e profondo che noi possiamo offrire.
Eppure noi salesiani qualche volta siamo vittime di una lettura, diciamo così, intellettualista della situazione e favorendo la professionalità abbandonando la profezia, mentre devono andare insieme. Perché il tema della presenza non è il non fare niente. La presenza diventa la risposta indovinata, intelligente, attuale, di una testimonianza che vuole rendersi presente, che vuole connettersi, che vuole entrare nella vita dei giovani.
Tutto il tema di una presenza umile che tocca poi nell’humus le radici dell’esistenza. Per questo, piuttosto che perdere tempo ad analizzare chi siano i nemici, che certamente esistono e non dobbiamo sottovalutare, è importante chiederci quali proposte stiamo concretamente offrendo. Credo che, soprattutto oggi, di fronte all’anonimato, la semplicità e l’autenticità dell’umanità e delle relazioni umane, come ci ha insegnato Don Bosco a Valdocco, siano la chiave fondamentale della nostra proposta educativa e pastorale.
5. Don Bosco proponeva ai giovani la Santità.
La componente religiosa è indispensabile nella formazione spirituale di qualunque persona. Oggi in Italia i giovani crescono con coetanei provenienti da culture e religioni molto diverse. I salesiani, nel mondo, educano giovani di culture e religioni diverse. Qual è il patrimonio esistenziale da trasmettere ai giovani per evangelizzarli senza fare proselitismo?
La Chiesa ha sviluppato una riflessione che più delle volte noi non conosciamo. La prima esperienza, il primo tipo di evangelizzazione è quella che si chiama la testimonianza silenziosa. Noi occidentali tendiamo a confondere il “non dire” con il “non comunicare”, ma non è così. Esiste una comunicazione metalinguistica molto più potente, molto più impattante della parola: l’esempio.
In molti paesi noi non possiamo parlare di Gesù, ma nessuno ci proibisce di vivere l’amore di Gesù e quella testimonianza ha mille volte più potere della parola detta, perché lì entriamo in un campo, diciamo così, metafisico, dove l’immagine non è un concetto ma è una memoria. Il bene gratuitamente fatto, gratuitamente dato, gratuitamente comunicato, diventa un’esperienza di meraviglia.
Allora questa prima esperienza ci obbliga a due cose molto importanti, la prima che è più importante della seconda è che noi siamo persone autentiche, radicate nella persona di Cristo, in modo tale che tutto il nostro essere, al di là del dire e non dire, diventa un Vangelo vivente. Io divento missione, che comunico senza il bisogno di dire, che connetto senza il bisogno di esplicitarlo. Perché? Perché la domanda è: `Ma tu perché fai questo?’ Ed è una domanda che è già una risposta in sé stessa.
Allora questo vale però non solo nei paesi non cristiani, questo vale in tutti i paesi. Perché l’amore del Vangelo non è un amore filia [amore di amicizia], un amore umano, contrattuale, io ti amo perché ecc., ma è un amore agape [amore totalmente gratuito], io ti amo perché credo nell’amore. E questo è Vangelo! Questa testimonianza penetra barriere culturali, geografiche ed etniche. Poi c’è un secondo punto che, nella misura in cui noi siamo radicati, con intelligenza facciamo passare questa testimonianza attraverso tutta un’esperienza umana. Ma oramai quest’umanità non è più orizzontale, ma è un’umanità come spazio dell’agape, come spazio della gratuità, come spazio dell’accoglienza incondizionata. Quando un educatore comunica questo valore senza dirlo esplicitamente, soprattutto in un contesto anonimo, frammentato e individualista, diventa una contro-testimonianza straordinaria alla cultura del vuoto.
Ne nasce una domanda, almeno silenziosa, nei giovani: `Ma scusi, come mai tu sei così disponibile, generoso, ci ascolti, non ti disturbiamo mai?’ E la risposta è un bel sorriso, perché la domanda è la risposta. In Occidente, poi, la situazione è chiara: siamo cresciuti con il concetto di religione intesa come spiritualità istituzionalizzata, fatta di riti e gesti. Oggi, invece, i giovani crescono in una cultura secolarizzata e globalizzata dove l’espressione religiosa sembra scomparire, quasi fosse roba da bambini. Ma questo non significa che sia scomparsa la sete di spiritualità. Ecco la distinzione tra religione e spiritualità. Perché il bisogno della spiritualità è il bisogno dell’anima, che poi si esplicita attraverso forme religiose. Allora, la secolarizzazione ha fatto piazza pulita, la globalizzazione ha spostato i valori, carriera, soldi, fama, ecc. Cosa capita? Che tutto quello che era religioso, che toccava in qualche modo la domanda di senso, adesso questa domanda di senso non ha più cittadinanza, ma non significa che è morta o che è sparita.
Molti giovani, privi del vocabolario adatto per esprimere la loro ricerca di senso, finiscono per cercare esperienze estreme di non-senso, quando invece stanno cercando proprio un senso. Se la ricerca del senso non trova risposte, diventa ricerca del vuoto e del non-senso.
Ecco perché oggi il tema della spiritualità sta emergendo di nuovo e noi dobbiamo fare attenzione perché non è un ritorno al passato, ma è un ritorno al futuro, che è un futuro che non conosciamo, è un futuro per il quale dobbiamo chiedere allo Spirito di Dio che ci aiuti a entrare in questa nuova terra santa. Questo implica una quantità enorme di umiltà, disponibilità, di fronte alle domande che spesso non hanno risposte immediate, evitando la tentazione di offrire risposte affrettate senza ascoltare o comprendere davvero le domande.
Ecco allora il ritorno alla santità proposta da Don Bosco. Oggi il tema della santità è suscitato, incontrato, identificato attraverso la presenza autentica di adulti radicati nell’esperienza spirituale. Perché nella misura che tu comunichi questa tua radicalità, questa esperienza, questa testimonianza, questo sguardo, questa presenza sta intercettando una domanda che ancora i giovani non hanno neanche il vocabolario per poterla esprimere.
Cioè noi ci troviamo tra una generazione di giovani che hanno il senso della domanda ma non hanno il vocabolario. Tanto meno hanno esperienze che diano senso alla loro vita. Ecco perché questo è un periodo bellissimo che da noi richiede una grande capacità intellettuale e pedagogica, che sia al servizio di questa ricerca di senso. Qui entra il tema centrale: stiamo notando giovani santi. Io sto incontrando giovani che hanno la capacità di dire le cose che io alla loro età non avevo. Perché noi vivevamo in un ambiente “cristiano”, perciò tutto ci aiutava. Ora i giovani che fanno la scelta della fede, la scelta del senso, devono avere le parole, il linguaggio, quindi un vocabolario per potersi esprimere, devono avere una convinzione. Se vogliono resistere devono avere una spina dorsale e di questi giovani ne abbiamo e questi giovani ci chiedono che noi siamo con loro, accanto a loro, ad aiutarli, accompagnarli, amarli e sostenerli.
6. L’educazione determina lo stile della vita.
Molte volte, professionisti e semplici cittadini si vantano di essere stati formati dai Salesiani. Qual è l’elemento caratteristico che determina questo giusto orgoglio, ma anche uno stile di vita?
Mi dicono che io sono un ottimista incorreggibile e ne sono anche felice. Perché lo dico? Perché il Signore mi ha dato questo dono di esperienze mondiali e di incontrare la diversità, ma allo stesso tempo la consistenza nella diversità. E la consistenza è frutto del carisma. Se sono in America Latina, o in Africa, o in Europa, o in Asia, io vedo, sento Don Bosco nelle persone che incontro. Non importa quale religione professino, o se non ne abbiano alcuna. Non importa quale posizione politica sostengano o rifiutino. Oggi, in un mondo postmoderno, post-secolare, globalizzato, il carisma è la chiave che ci permette un dialogo straordinario.
Perché il carisma salesiano incontra la persona. Nel sistema preventivo, il primo punto è la ragione; Don Bosco diceva ragione, e oggi dobbiamo attualizzarla, farla dialogare. È l’umano senza condizioni, senza premesse. L’umano, il volto del giovane, il volto del ragazzo è il volto di Dio e io lo incontro per servirlo. E quando lo incontro, comincio a scoprire che questo volto, che quest’umanità guarda in alto, non solo verso il basso o dentro, guarda in alto, cerca qualche cosa di significativo, che è la religione, la spiritualità, la trascendenza, in tutte le culture. Perché appartiene all’umanità guardare in alto e non chiudersi in sé stessi.
Ecco, questa dinamica dell’umanità che dialoga con la divinità noi la viviamo in un ambiente di amore, ma di un amore voluto, – Don Bosco diceva: amorevolezza, – che poi è un problema tradurre in altre lingue. Perché non è solo amore, ma amore come decisione, amore come presa di posizione. Questo significa che la fatica dell’umano con il divino, perché poi sappiamo bene che è tutto un cammino faticoso ma bello, questo noi lo facciamo senza complicare la vita. E se faccio due passi avanti e uno indietro non c’è problema, continuiamo. È questa è la bellezza del carisma salesiano, e l’esperienza attuale ce lo conferma con chiarezza.
Questa è la grande responsabilità che abbiamo, e credo che tutti i Salesiani e chi condivide la nostra missione lo capiscano: più conosciamo Don Bosco, più lo amiamo veramente. Il nostro pericolo qual è? L’ho detto nel discorso finale che hai citato: non basta amare Don Bosco, bisogna conoscerlo. Perché Don Bosco è più grande di Don Bosco. Don Bosco oggi, come esperienza dello Spirito, continua a dialogare con il tempo, la storia, la cultura, le mentalità, le civiltà. È nostro compito sostenerlo, nutrirlo, portarlo avanti. Se dentro di noi manca il fuoco, siamo noi a mettere da parte il carisma. Ecco perché non guardo solo alle cose negative che accadono; guardiamo alle cose positive che ci sono date, perché siamo noi a farle crescere, e quel talento che abbiamo dobbiamo moltiplicarlo, ovunque siamo.
7. Parlaci di te.
Nella tua storia personale, nella tua spiritualità, come leggi questa chiamata?
Io mi riconosco come figlio dei miei genitori e fratello dei miei fratelli. Tutto inizia nella famiglia. La famiglia per me ha un effetto straordinario che definisce chi sono. Ho avuto un papà che era farmacista e catechista laico all’oratorio. Eravamo sette fratelli, il secondo è morto giovane per insufficienza renale, oggi sarebbe ancora vivo. Mia mamma, perché il salario di papà non bastava, ha aperto un negozio. Una donna di grande impegno, grande lavoro, tutta la famiglia era coinvolta, poi siamo finiti con cinque negozi. Perciò nella famiglia siamo cresciuti con una grande fede, specialmente la morte di mio fratello è stata vissuta con una fede straordinaria – che ho scoperto quando sono diventato grande, – e allo stesso tempo di grande impegno, di grande dedicazione e lavoro.
Quali sono le cose che rimangono con me oggi? L’autenticità. Non si possono tradire i giovani e non tradiamo i giovani perché non tradiamo la chiamata che il Signore ci ha fatto. Il Signore ci ha chiamato con grande libertà e noi abbiamo detto `sì, vengo’. Ora non stiamo qui a giocare, non sarebbe corretto, perché accettando di seguire il Signore come fece Don Bosco, se giochiamo, il prezzo non lo paghiamo noi ma i giovani, e questo non è giusto. Ecco allora cosa mi nutre oggi? Prima di tutto, essere ogni giorno animato dal Vangelo, nutrito dalla Parola di Dio. Perché se non è la Parola di Dio che mi nutre, sarà la parola umana, che vuol dire la parola del mio ego, le parole delle mie idee, le parole del `dove io voglio arrivare, cosa voglio ottenere’. E questo diventa la via del tradimento più classico.
Quando mi è stata data questa responsabilità, quali reazioni? Quando ci sono queste situazioni, si sa che i nomi girano; però quando arriva, arriva. E quando arriva ci sorprende sempre. Io mi rendo conto dei miei limiti, delle mie fragilità, però mi rendo conto anche che sono benvoluto, che sono accompagnato, che sono amato dai miei confratelli, che i giovani che ho conosciuto nella mia vita, quelli che condividevano con noi la missione Salesiana, mi hanno sempre voluto bene, forse più di quanto io ho voluto bene loro, anche se ho cercato di voler bene al massimo. Però ho ricevuto sempre molto di più di quello che stavo dando e questo mi rasserena. E poi l’altra cosa è la devozione a Maria. Don Bosco, oggi lo capisco sempre di più. Quando diceva: `Siate devoti di Maria e saprete cosa sono i miracoli’, aveva ragione. Nel mio piccolo ci sono dei momenti dove io rimango sorpreso dell’azione di Dio attraverso l’intercessione di Maria Ausiliatrice.
Poi, naturalmente, mi lascio accompagnare dal direttore spirituale, cioè qui entriamo e andiamo all’essenziale della vita di Don Bosco. L’essenziale della vita di Don Bosco è che lui era un uomo di Dio. Non è per caso che i primi Salesiani, quando dovevano scrivere un libro, gli davano come titolo:`Don Bosco, unione con Dio’. Non hanno scritto un libro `Don Bosco, Apostolo dei Giovani’, e questo è molto indicativo. Don Bosco era un uomo di Dio, aveva la presenza di Maria nella sua vita, ma anche la guida di don Cafasso. Don Bosco ha cercato sempre di trovare qual è la volontà di Dio per lui. Perciò ecco, in maniera molto breve, in questo momento io mi trovo con questa chiamata che mi fa sentire ancora più umile e piccolo, in modo tale che io non rovini l’opera di Dio.
Don Ferdinando Colombo, salesiano
Immagine di copertina: don Fabio Attard, Rettor Maggiore dei Salesiani.




