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Vangelo di Domenica 19 Febbraio 2012

di padre Gian Franco Scarpitta

Amore, Convinzione, Conversione

Mentre Gesù ha davanti a sè il povero paralitico calato da altri con una barella, assume un atteggiamento che suscita perplessità negli astanti scribi che pongono obiezioni: "Costui bestemmia: solo Dio può rimettere i peccati". 
E in effetti, stando alla Legge e ai Profeti (vedi Isaia 43, 25) solo a Dio sarebbe stato possibile attribuire il potere sui peccati, poiché il perdono non era prerogativa pertinente ad autorità umana alcuna, fosse pure quella di un re o di un grande della terra. Come poteva allora Gesù far proprio un diritto che non gli apparteneva, quello di perdonare i peccati? 
Considerata la cultura dell'epoca l'interrogativo è giusto e attendibile, tuttavia questi zelanti conoscitori della Bibbia non hanno cuore sufficientemente aperto per accettare che Gesù non è un uomo qualunque e neppure un altolocato signore fra quelli acclamati dalla storia comune umana. E' neppure è un profeta alla pari di Isaia o di Ezechiele. 
Gesù infatti non parla semplicemente perché ispirato dallo Spirito Santo e in nome di Dio. Egli parla perché è Dio egli stesso, il Verbo eterno che si è fatto carne per venire ad abitare in mezzo a noi (Gv 1, 14) ed è in forza di questo che egli si reputa in grado di perdonare i peccati. 
Scrive Ratzinger in un suo volume: "Solo Dio si conosce perfettamente. Solo Dio vede Dio. Per questo, solo colui che è Dio poteva darcene notizia… Soltanto Colui che è uomo e Dio, può fare da ponte tra l'uno e l'altro." Quindi solamente Dio può conoscere il cuore dell'uomo e giudicare adeguatamente le sue azioni e i suoi pensieri e solamente Lui può intervenire sui nostri peccati. Ma se Gesù non fosse Dio non avrebbe certo la pretesa di rivolgersi al paralitico con quelle parole assolutorie. Che vantaggio ne trarrebbe? 
Piuttosto, appunto mentre proferisce quelle parole "Ti sono rimessi i tuoi peccati", Gesù annuncia se stesso come il redentore che riconcilia tutti quanti al Padre con il suo perdono spontaneo e gratuito realizzando la promessa di Isaia sul perdono universale: "Io, io cancello i tuoi peccati; per riguardo a me non ricordo più i tuoi peccati." 
Perdonare i peccati spetta solo a Dio perché solamente a lui è possibile conoscere fino in fondo il cuore dell'uomo, i sentimenti, le inclinazioni, le condizioni reali di ravvedimento, insomma solo Lui può avere cognizione fondamentale dell'animo umano. L'uomo non è in grado di conoscere se stesso fino in fondo, ma Dio può certamente vantare questa possibilità e poiché Gesù è Dio fatto uomo egli lo dimostra con l'eliminazione del male fisico nel paralitico, accompagnata dall'estinzione del male morale: "Perché sappiate che il Figlio dell'uomo ha il potere di rimettere i peccati sulla terra… Alzati, prendi la tua barella e vai a casa tua". 

Il peccato è un malessere altamente distruttivo molto più del dolore fisico e per questo l'attitudine della riconciliazione in Gesù è sollecita e pronta e previene anche la richiesta stessa da parte dell'uomo. Essa si spiega solamente nella radicalità dell'amore con cui egli realizza la salvezza per volontà del Padre e trova la sua spiegazione necessaria nella misericordia di Dio. Dio perdona perché ama e non chiede altro che l'accettazione di questo amore riconciliante, per il quale possiamo accogliere il perdono e la gioia della riconciliazione. Il perdono di Dio, come ci illustra Isaia nella Prima Lettura di oggi, equivale alla dimenticanza del torto ricevuto dall'uomo, all'estinzione delle colpevolezze con cui siamo stati capaci di offendere Dio e di danneggiare il prossimo. 
Ma perché noi non siamo capaci di aprirci a siffatto dono d'amore che ci proviene da Dio? Cosa ostacola in noi la difficoltà di apertura e di accoglienza nei suoi confronti? 
Credo ad ostacolarci potrebbero essere due fattori: 
1) la nostra concezione troppo avulsa e distaccata del divino: forse in noi non c'è la spontaneità di accoglienza che si conviene alle persone entusiaste e fiduciose che vedono in Dio l'amico e il confidente, quanto piuttosto una sorta di servile sottomissione che ci conduce, malgrado l'evidenza della misericordia di Gesù, a vedere in Dio come l'Ente Supremo e Perfettissimo. Ne abbiamo indubbiamente stima, mostriamo anche ammirazione e fiducia nei suoi confronti, tuttavia non nella forma della fiducia e della libertà. Un po' come quando si invita a pranzo una persona di alto rango o un uomo importante: gli si usano parecchie attenzioni e riguardi certamente perché gli si vuol bene, ma non si mostra serena apertura nei suoi confronti. 
2) Considerare l'amore di Dio e il suo perdono, proprio perché comporta la riconciliazione e la comunione con Lui, richiede una disposizione al cambiamento di vita. Ma non sempre questo è facile, per il semplice fatto che il cambiamento ci priva di consolidate posizioni di comodo e la conversione comporta la rinuncia a quello che sappiamo essere imperfetto o dannoso e che tuttavia è per noi dilettevole. Un po' come quando non si vuole andare dal medico perché si sa già che la diagnosi imporrà di smettere di fumare. 
Nell'uno e nell'altro caso non si può parlare di vera conversione avvenuta, perché permane sempre orgoglio, presunzione o anche sottomissione servile sterile e melense. In una parola non ci si è pienamente CONVINTI dell'amore di Dio e questo è possibile soltanto quando ci si renda conto che l'amore di Dio è tanto grande e fruttuoso quanto vano e dannoso è il peccato. 
Peccare in ogni caso vuol dire ostinarsi a misconoscere la misericordia di Dio e la sua volontà di perdono, procedere secondo la propria presunzione e la propria spregiudicatezza e recare solamente danno a se stessi. E' molto più convincente e invece l'amore di Dio, che vince il peccato e supera le nostre debolezze e quando questo amore sarà messo a raffronto con il danno di cui il peccato è capace, solo allora ci sarà vera riconciliazione. 
Dio comunque non si arrende alla persistenza nel peccato, ma nella misura in cui noi ci si ostina contro l'amore egli si ostina nell'amore. Ciò specialmente nella croce del suo Figlio, che dell'amore è la massima espressione.